di mons. Gualtiero Sigismondi
Pace a voi!» (Gv 20, 19.21.26): sono le prime parole che il Risorto rivolge ai discepoli la sera di Pasqua. Esse hanno lo stesso valore e significato di quella formula di benedizione – «Sia la luce!» (Gen 1, 3) – che ha dato inizio alla creazione del mondo. La pace è il dono pasquale che Cristo risorto offre ai discepoli dopo essere passato attraverso la morte e sceso agli inferi. Egli dona la Sua pace, come aveva promesso: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14, 27). La pace lasciata in eredità da Gesù, “nostra pace” (cf. Ef 2,14), richiede anche la “spada” (cf. Mt 10, 34). Si tratta di una pace che abbatte i muri di separazione sia dell’interventismo ideologico, che ricorre compulsivamente al fuoco delle armi, sia del pacifismo da sfilata, che non riconosce, come extrema ratio, il diritto di difendersi con una forza proporzionata alla violenza subita.
«Quella di Gesù è un’altra pace – osserva papa Francesco –, diversa da quella mondana. Se pensiamo ai conflitti bellici, le guerre si concludono, normalmente, in due modi: o con la sconfitta di una delle due parti, oppure con dei trattati di pace. Non possiamo che auspicare e pregare perché si imbocchi sempre questa seconda via; però dobbiamo considerare che la storia è un’infinita serie di trattati di pace smentiti da guerre successive (…). Invece, come dà la sua pace il Signore Gesù? San Paolo dice che la pace di Cristo è “fare di due, uno” (cf. Ef 2,14), annullare l’inimicizia e riconciliare». Nell’embolismo, la breve orazione che nella liturgia eucaristica segue immediatamente la recita del Padre nostro, la Chiesa chiede a Dio il dono della pace che Cristo suo Figlio, “Principe della pace”, ci ha ottenuto con la sua Pasqua: «Concedi la pace ai nostri giorni». Nella comunità ecclesiale la pace è il germoglio che spunta dalla radice dell’unità; nella società civile la pace è il frutto maturo della giustizia. Nella Chiesa gli “operatori di pace” sono “tessitori di comunione”, nella città i “testimoni di pace” sono, per così dire, “promotori di giustizia”.
La pace sgorga dalla conversione del cuore
La pace è un dono di Dio da accogliere con premura e un progetto, mai totalmente compiuto, da realizzare con coraggio, tenendo bene a mente che riconciliazione e giustizia sociale sono condizioni indispensabili per la pace. «Lo sviluppo – scrive Paolo VI nella Populorum progressio – è il nome nuovo della pace» fra i popoli, che si fonda su strutture politiche ed economiche eticamente orientate, ma queste si edificano su basi solide solo se esistono processi interiori di riconciliazione, di bonifica del cuore. La pace, prima ancora che dalla fine di ogni guerra, sgorga dalla conversione del cuore, che è la piattaforma missilistica dell’orgoglio e dell’ira, l’arsenale degli ordigni dell’odio, il poligono di tiro delle armi da fuoco delle parole cattive. «In un mondo lacerato da lotte e discordie», la ricerca sincera della pace ha inizio quando lo Spirito santo piega la durezza dei cuori, li rende disponibili al dialogo, disarma la vendetta con il perdono.
All’interno del cantiere della pace, aperto a tutti gli uomini, la Chiesa si fa portavoce della “coscienza morale dell’umanità”; parla di pace all’imperativo e all’indicativo, mai come qualcosa di facoltativo, dichiarando che la corsa agli armamenti è un furto, un crimine, una pazzia. In Tu non uccidere – una sorta di manifesto di pace, pubblicato anonimo nel 1955 dopo le tragedie delle due guerre mondiali – don Primo Mazzolari definisce una “follia” la corsa agli armamenti, osservando che «la nostra arma di difesa è la giustizia sociale più che l’atomica». A tale riguardo il parroco di Bozzolo sottolinea che la pace è frutto di un disarmo che parte dall’animo e giunge alle scelte delle persone fino a quelle degli uomini che hanno responsabilità politica.
«La pace – a giudizio del card. Roger Etchegaray – non è così semplice come la immagina il cuore, ma è più semplice di quanto non stabilisca la ragione (…). Bisogna essere almeno in due per fare la pace, mentre basta uno solo per fare la guerra!». Da questa verità elementare si evince che il dialogo è uno strumento efficace per camminare in modo sempre più deciso sulla via della pace, che invita a far tacere le armi e a restituire la parola alla diplomazia, alla mediazione e al negoziato. Indubbiamente, la pace ha bisogno del lavoro di quanti hanno compiti di governo, e tuttavia passa attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana; è il risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona oltre che di tutti i popoli. «Per dire addio alla guerra – chiosa il card. Etchegaray – non basta dire buongiorno alla pace (…). Molti hanno sulle labbra la parola pace, ma pochissimi hanno semi di pace nel cavo della mano».
La drammatica cronaca dei nostri giorni difficili, segnati dal tragico conflitto in Ucraina che sta lasciando sul campo un orribile fiume di sangue e di lacrime, riporta alla mente la riflessione maturata da don Primo Mazzolari in Alta Slesia, nel 1920, in una zona contesa tra polacchi e tedeschi: «Vogliamo l’amore fra i popoli, non l’odio: la pace nella giustizia, non la guerra». Queste parole traducono il forte grido di dolore del popolo ucraino, per il quale sale a Dio una preghiera incessante: «Concedi, o Signore, che il corso degli eventi nel mondo si svolga secondo la Tua volontà di pace». Fra gli occhi smarriti di chi ha abbandonato il proprio Paese, mi hanno particolarmente colpito quelli di un giovane, stanco e intirizzito, seduto per terra con le spalle rivolte alla strada che lo separa dal confine polacco e lo sguardo fisso verso il suo Paese in fiamme, alimentate dal gelido vento della guerra. Quegli occhi, velati di lacrime, riportano alla mente il pianto degli Israeliti deportati in terra straniera: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion» (Sal 137,1). È il Nabucco di una stagione della storia che, nel suo intreccio di bene e di male, Dio guida con un preciso disegno, illuminato dal sole di Pasqua.